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Nella camera fu apparecchiata la mensa, per la quale zia Martina trasse dall’arca le tovaglie di lino che non avevano più veduto la luce dopo che erano state acquistate.
Il battesimo si fece verso le undici, una mattina freddissima e nebbiosa. Dal cielo candido cadeva, intorno intorno al paesetto, un fitto velo bianco: le strade erano deserte, sparse di pozzanghere ghiacciate: un silenzio indescrivibile regnava sullo spiazzo, davanti la casa dei Dejas, dove il mandorlo disegnava la venatura nera dei suoi rami nudi sul candore vaporoso della nebbia.
Ma d’un colpo lo spiazzo si animò, invaso da una torma di monelli infagottati in pelli e stracci, con cuffie rosse frangiate, con vecchie scarpe più grosse di loro: poi apparvero gruppi di donne freddolose che starnutivano, tossivano e puzzavano di fumo e di fuliggine.
Il corteo del battesimo usciva dalla casa di zia Martina. Precedevano due bambini che sostenevano con grave importanza due ceri adorni di nastri rossi. Poi veniva una donna con la neonata coperta di scialli e da un drappo di broccato verde simile allo stendardo di San Costantino: poi il padrino col suo pastrano e uno scialle bianco e nero dal quale emergeva il visetto roseo, inalterabilmente beato. La madrina, così alta che pareva un’ombra di persona nell’ora del tramonto, doveva curvarsi per parlare con lui: a fianco veniva Brontu, sbarbato, felice; dietro