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circondata di un’aureola romantica, anzi tragica, la pallida e scarna Grazia si mise anch’essa a ridere nervosamente; anche Minnìa rise, anche il piccolo paesano e lo studente risero. Zia Bachisia si guardò attorno con occhi fosforescenti. Perchè ridevano? Erano matti? Alzò la mano gialla e magra, ma mentre stava per lanciare uno schiaffo, non sapeva bene se a sua figlia od al bimbo, ecco zia Porredda coi maccheroni fumanti.

Dietro di lei veniva zio Efes Maria Porru, uomo grosso e imponente, col petto molto stretto dal velluto turchino del giustacuore: era un contadino che posava a letterato: e il suo faccione grigio con la corta barba a riccioli, e gli occhi grandi e chiari dimostravano una certa intelligenza.

— Presto, presto a tavola! — disse zia Porredda, deponendo il piatto in mezzo alla tavola. — Ah, voi ridete? Il piccolo dottore vi fa ridere?

— Io stavo per dare uno schiaffo a vostro nipote, — disse zia Bachisia.

— Perché, anima mia? Venite dunque a tavola. Giovanna qui. Dottor Porreddu, venga qui.

Lo studente si gettò supino sul letto, stese le braccia, sollevò le gambe per aria, le riabbassò, balzò giù in piedi sbadigliando.

E i ragazzi e Giovanna ricominciarono a ridere. Egli disse:

— Un po’ di ginnastica fa bene. Oh Dio, come dormirò stanotte! Ho tutte le ossa slegate. Come ti sei fatta grande, Grazietta; sembri una pertica.