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rabile ingrata, e minacciava di percuoterla con la mestola. Per la paura la servetta si grattò un dito e scosse in alto la mano sanguinante. In quel momento rientrò zoppicando il giovine avvocato, avvolto in un lungo e larghissimo soprabito nero che pareva un mantello con le maniche: il suo piccolo viso roseo e tondo esprimeva una contentezza egoista da bambino lattante.
Domandò subito cosa c’era da mangiare, poi si degnò sedere presso zia Bachisia, e chiacchierò con lei fino all’ora della cena.
Poi rientrò zio Efes Maria col suo faccione di marmo vecchio e le grasse labbra aperte, e volle andar subito a cena: nella stanza da pranzo scintillavano due alte credenze di legno giallo; l’ambiente era discretamente signorile, con corsie sul pavimento, stufa, vasi di fiori: ed egli non rifiniva di guardarsi intorno con compiacenza, mentre zia Porredda vi si moveva a disagio, coi suoi grossi piedi dalle scarpe ferrate.
Come in una sera lontana, ella entrò portando in trionfo i maccheroni fumanti: e tutti sedettero attorno alla mensa ospitale.
Zia Bachisia sedette all’ombra delle larghe maniche di merletto della signorina Grazia, e cominciò a far le sue meraviglie appunto per quelle maniche che parevano ali.
— No, da noi non se ne sono viste mai; già, signore non ce ne sono, da noi. Qui sembrate tutte angeli, le signore...
— O pipistrelli... — disse zio Efes Maria. —