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grottate; uscì e scese lentamente la scala, ficcando le mani entro due brevi aperture che la sua gonna d’orbace, come tutte le gonne dei costumi sardi, aveva sul davanti, dalla cintola in giù.

La sera di gennaio era limpida, ma freddissima: sul cielo d’un azzurro vitreo qualche stella argentea pareva tremasse di freddo. Attraversando il cortile, Giovanna vide, dietro i vetri illuminati della stanza da pranzo, il viso bianco e gli occhi ardenti di Grazia. La fanciulla teneva in mano un giornale di mode: s’era fatta alta e bella e vestiva secondo l’ultimo figurino. Quando vide l’ospite la salutò con un sorriso, ma non si mosse. Giovanna entrò in cucina: anche la cucina era stata rinnovata: le pareti bianche, i fornelli di mattoni lucidi, una lampada a petrolio pendente dalla volta.

Zia Bachisia non si saziava di guardare intorno, coi suoi occhietti verdi brillanti nel viso giallo d’uccello rapace; ah, lei no, non era cambiata, la vecchia strega, sedeva accanto al fuoco, con la serva, una ragazzaccia poco pulita e scarmigliata, che rideva forte mostrando i denti sporgenti. Zia Porredda cucinava e sgridava la serva per quel suo modo di ridere. Ecco, la padrona cucinava e la serva sedeva accanto al fuoco e rideva. Che volete farci? la brava donna non poteva stare un solo momento in ozio, sebbene ora fosse madre d’un avvocato di grido.

Giovanna sedette lontana dal fuoco, sempre con le mani entro le aperture della gonna.