Pagina:Naufraghi in porto.djvu/123


— 117 —

tinuavano a volare, silenziosi, in fila. Io mi buttavo anche in mezzo allo stagno per prendere il fenicottero. Ero agile, sai, agile come un pesce: avevo diciotto anni.

— A che servono i fenicotteri?

— A niente: s’imbalsamano: hanno le gambe lunghe e sembrano di velluto. Hai tu veduto quei paesi? Ah, sì, è vero, tu sei stato nelle miniere e sei passato per Cagliari. Io tornerò laggiù per morire in santa pace.

— Lei è malinconico questi giorni!

— Che vuoi, caro amico? È la primavera; è così triste passar la Pasqua in prigione! Quest’anno farò il precetto pasquale.

— Io l’ho già fatto.

— Ah, tu l’hai già fatto!

Poi i due condannati tacevano e ricordavano.

E passò aprile, maggio, giugno: i desolati muri del carcere tornarono a infocarsi, gli insetti immondi e tormentosi si svegliarono; odori nauseabondi ricominciarono a infettare l’aria: nella camerata dei calzolai, sempre vigilata dal guardiano taciturno e rosso, il cuojo, la pece ed il sudore esalavano un puzzo insopportabile.

Costantino, sempre più anemico, cominciò a patire assai per la tortura degli insetti: gli altri anni dormiva profondamente e non si accorgeva delle punture, ora invece aveva il sonno leggero e certe trafitture lo svegliavano di soprassalto, dandogli un brivido per tutta la persona: allora cominciava l’insonnia, o un dormiveglia peggiore dell’insonnia, che talvolta assu-