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Egli cuciva, cuciva, curvo, con una scarpa fra le gambe, sul grembiale di cuoio. Di tanto in tanto guardava attentamente la scarpa, poi tornava a cucire, tirando lo spago con ambe le mani, quasi rabbiosamente. Ah, sì, bisognava lavorare, adesso che il bambino era morto. Lo aveva egli amato molto il bambino? Non sapeva; forse non molto. Lo aveva veduto una volta sola a Nuoro, attraverso la rete metallica della stanza dei colloqui, in braccio a Giovanna piangente. Il bambino aveva un visetto rosso, un po’ scabroso come certe albicocche mature, e gli occhietti lucenti e violacei come due acini d’uva, velati dalla frangia dello scuffiotto. Durante il colloquio aveva pianto e strillato, pauroso dei guardiani immobili e rigidi, e di quella rete metallica alla quale si aggrappavano le sue manine convulse.
Costantino non serbava altro ricordo del suo Martino. Gli anni erano passati, ed egli se lo immaginava sempre piangente, rosso, con gli occhietti violacei nascosti dalla frangia dello scuffiotto rosso. Ma pensando all’avvenire vedeva Martino grande e svelto, buono a condurre il carro, montare a cavallo, seminare, mietere: conforto ed aiuto alla madre sua. Ah! egli, il condannato, sperava sempre di tornar presto a casa, ma se qualche volta sentiva che questa speranza era vana, pensava tosto a suo figlio. E lo amava per amor di Giovanna più che per quell’affetto egoista che nasce dall’abitudine e dalla vicinanza.