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incontrava il condannato io guardava con profonda compassione, felice, per conto suo, di sentirsi così buono.

Il bambino morì tre giorni dopo, e Costantino ne ricevette direttamente la notizia. Pianse in silenzio, nascondendosi, e davanti ai compagni di lavoro e di sventura, volle mostrarsi forte. Quello che aveva l’amante ammalata, saputa la disgrazia del condannato sardo, cominciò a piangere in modo strano, con certi strilli di gallina; e il suo visetto grigio di bambino vecchio era così ridicolo nel pianto, che l’abruzzese, quello che litigava sempre col fratello, si mise a ridere: ma un compagno gli punse con la lesina la coscia ed egli trasalì e disse — ahi! — senza protestare.

Costantino guardò meravigliato i compagni; poi scosse la testa e si rimise a lavorare. Tutti tacquero, e il settentrionale si calmò. Sotto la volta bassa biancheggiava una luce cruda, che veniva dal cortile ombreggiato: il caldo intenso traeva un aspro odore dal cuoio, dalle mani sudate e dai piedi dei condannati.

Questi condannati erano tredici, continuamente sorvegliati da un guardiano coi baffi rossi, che pareva un cane a guardia di un branco di pecore. Per la divisa eguale, per i capelli rasi, per la stessa espressione un po’ attonita del viso, i condannati si rassomigliavano, parevano fratelli o almeno parenti; eppure mai come in quel giorno Costantino si era sentito più estraneo, più lontano dai suoi compagni di pena.