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nato aveva lasciato un figlio, un bambino di pochi anni, suo e della donna malata. Se ella moriva, il bimbo restava orfano e derelitto.

Costantino trasalì, non perchè il racconto del condannato lo commovesse, ma perchè quel bambino e quella donna gli ricordavano Giovanna e Malthineddu suo.

Il nuovo venuto, che subito aveva cominciato a lavorare destramente, taceva, adesso, a capo chino, intento al lavoro, col labbro inferiore scosso da un tremito, come i bambini che stanno per piangere. Costantino lo guardava, ma come gli altri restavano indifferenti al suo dolore, così egli non poteva prender parte al dolore altrui. Soltanto si sentì ancora più triste, più smanioso di uscire.

Quando vide il re di picche lo attirò presso il muro caldo, in un angolo d’ombra, ma non seppe dirgli nulla di quanto soffriva. A che pro?

Gli raccontò invece la storia del nuovo condannato; l’altro alzò le spalle, poi si volse, sputò sul muro e disse:

— Se vuole può scrivere anche lui, ma raccomando prudenza. C’è qualcuno che fiuta l’aria.

— Come faremo, — chiese poi Costantino, pensieroso, — come faremo quando lei non sarà più qui?

— Tu vorresti che io restassi sempre qui, cialtrone.

— Dio me ne liberi! No. Io anzi le auguro di andar via presto, domani...