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di Giovanna sotto il capo; e questa lettera era laconica e triste in sommo grado: diceva che Giovanna e la madre si trovavano in grande povertà e che il bambino era gravemente malato.

Costantino non pensava neppure che era ben crudele scrivergli in quel modo: egli voleva la verità, fosse pur triste, e gli sembrava che dividere i dolori di Giovanna e spasimare per la disperazione di non poterla soccorrere, fosse uno dei suoi doveri. Dovere sterile, ahimè, egli lo sentiva, e questo aumentava il suo dolore.

Egli s’era fatto abile nel lavorare da calzolaio, e lavorava alacremente, ma guadagnava pochissimo, e tutto il guadagno, — tolto quello che pretendeva il re di picche per i suoi buoni servigi, — lo mandava a Giovanna.

— Parola d’onore, — gli diceva l’ex-maresciallo, tu sei un babbeo. Mangiateli, i denari. Dovrebbero mandartene loro.

— Sono così povere.

— Eh, no! Hanno il sole, loro. Che vogliono di più! Se tu mangiassi e bevessi, faresti opera di carità. Sei uno stecco, vedi, caro amico. Poco male io. Eh, io, mio caro, io ingrasso. Il mio lardo e fatto di aria: fa nulla, ma ingrasso.

Infatti oramai sembrava una pallottola; ma di una pinguedine vuota, cascante, gialla. Costantino invece era scarno, con gli occhi infossati e le mani quasi trasparenti.

— Il sole! — pensava con amarezza. — Ah, sì, esse hanno il sole! Ma a che serve anche il