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62 benito mussolini

Per la seconda volta, a distanza di sette giorni, ho corso serio e immediato pericolo di vita. Bastava che il proiettile fosse scoppiato soltanto un passo indietro, per ridurmi a brandelli.

Jannazzone mi dice:

Si fussi in voi, porterei un cero a Monteverginel

Il bombardamento non è continuato. Il mio, è stato l’ultimo colpo. Ritorniamo ai nostri ripari. Nel pomeriggio calmo, molti si fermano ad osservare la buca enorme, prodotta dallo scoppio del 280. Io trovo una scheggia ancora tepida che peserà un paio di chilogrammi. La metto fra i miei cimeli di guerra. L’artiglieria di grosso calibro fa meno vittime, forse, di quella di medio e piccolo calibro, ma esercita una influenza deprimente sullo spirito dei soldati. Il soldato di fanteria si sente disarmato, impotente contro il cannone. Quando l’artiglieria batte le nostre posizioni, ognuno di noi è come un condannato a morte. Il sibilo annuncia il proiettile e ogni soldato si domanda: «Dove scoppierà?». Contro il cannone non c’è alcuna difesa possibile, all’infuori di quella costituita dai «ripari» che sono poco profondi e pochissimo consistenti. Si tratta di sassi ammucchiati insieme con zolle di terra. Bisogna restare immobili, contare i colpi e attendere che il bombardamento finisca. Per un’altra ragione il cannone impressiona il soldato, ed è il genere di ferite ch’esso produce. Le pallottole di fucile o di mitragliatrice non straziano, come un proiettile di cannone.

C’è un solo morto: un caporal maggiore degli