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“calme„ sono una eccezione, salvo nei casi di profonda duratura incoscienza, e che la maggioranza dei moribondi, anche se erano infermi di mente, mostrano nel loro comportarsi automatico in agonia un’ansietà istintiva subconscia, che si manifesta perfino nel raccapricciante aggricchiarsi delle mani sulle coltri: ciò si vede perfino nelle morti per esaurimento. I moti reflessi violentissimi dell’asfittico che sta per annegare o ha serrata la strozza, o muore per angina pectoris (il più spaventoso spettacolo di morte che nella mia professione di medico io abbia mai veduto), son dovuti al portarsi iniziale dell’attenzione conscia, non già sulla causa provocatrice di quelle sofferenze, tanto meno sulla introspezione, dirò così, cenestesica del morente, bensì proprio sulla progrediente sensazione dell’allontanarsi della vita. Intendiamo parlare del “morire„, che non è un fatto biologico istantaneo, ma progressivo.

Senza dubbio, se ci limitiamo all’“attimo fuggente„, in cui si estingue il soffio della vita, è dato supporre, anzi sperare, che nella immensa maggioranza dei casi, massime in chi muore per paralisi, o in coma, o in demenza, ossia con oscurità della coscienza, esso non sia accompagnato da vero, acuto dolore. Pensando che il Dolore significa la difesa della Vita in ogni nostro stato o atteggiamento, come divinò il mio carissimo Regàlia, vengono i brividi all’idea che la sensazione cenestesica della perdita suprema,