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tinua, traverso tutte le peripezie della vita, fino all’ultimo anelito del morente: e a ragione, quel nostro esimio epigrafista che fu il Muzzi, dettò il celebre epitafio per un bimbo morto sul nascere: Nacque Pianse Morì — Oh compendio della più lunga vita!

La Morte è sempre stata riguardata dall’Uomo come un destino crudele dei viventi; la sua inesorabilità ha fatto dubitare della esistenza di un Dio Creatore e Provvidente; inquantochè, come scriveva F. D. Guerrazzi, “o la Vita è un male, e perchè ci fu data?, o la Vita è un bene, e perchè ci vien tolta?„. Essa sola, la morte, è stata in realtà considerata, nel suo significato filosofico, come l’appannaggio della specie nostra: gli uomini, non gli animali, notò argutamente il Faguet, si dicono “mortali„, ed “Immortali„ dicono esclusivamente i loro Dei. Nè vale che nel suo ottimismo un Poeta settecentista abbia cantato: “Non è ver che sia la morte — Il peggior di tutti i mali„: il fatto sta che davanti allo spettacolo del trapasso, ognuno prova un istintivo sgomento all’idea che una identica sorte gli toccherà indeprecabilmente.

Ma in se stessa è la morte davvero dolorosa come tanti temono, e come, anzi direi, tutta la Umanità crede o ha sempre creduto, circondando l’ultimo passo di una particolare aureola di terrore tragico, e facendone il pernio di quasi tutte le sue credenze religiose? Certo, queste non si risolvono tutte nell’animismo secondo la vecchia opinione