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con penna nera. Queste sfasature grammaticali e sintattiche sono frequenti anche nel memoriale, ma purtroppo, trattandosi di fotocopie, non è possibile rivelare se ciò avvenga in occasione del cambio di penna.

Queste constatazioni rivelano la realtà di una scrittura estremamente artificiosa, vigilata e laboriosa, scaturita dal cuore di una zona grigia, dentro un campo di contrattazione continuo ed estenuante fra il prigioniero e i suoi inquisitori, che consente di escludere l’ipotesi dell’esistenza di messaggi segreti o in codice. Il controllo dei sequestratori fu applicato in modo rigoroso nelle lettere più politiche effettivamente distribuite, ma non venne attuato nelle struggenti lettere di addio che Moro scrisse ai suoi famigliari, ritrovate soltanto nel 1990. In questo caso, l’osservazione dei testi, seppure in fotocopia di manoscritto, denota che le missive furono redatte in una condizione di maggiore libertà espositiva: i brigatisti sapevano sin dall’inizio che non le avrebbero recapitate e fecero credere al prigioniero che quei messaggi erano stati sequestrati dalla polizia. Il fatto che il prigioniero per ben due volte nel corso dei 55 giorni fu indotto dai suoi carcerieri a scrivere quelle lettere di addio sotto la minaccia di una condanna a morte imminente, rivela come i terroristi si servissero di questi espedienti emotivi, tipici di ogni sequestro di persona a scopo estorsivo, per aumentare il loro dominio psicologico su Moro e prostrarlo sempre di più.

Per provare a comprendere il significato di queste carte mi è sembrato determinante spostare l’attenzione dal tema dell’autenticità a quello della formazione del discorso di Moro, a partire dal dato di fatto che egli era un prigioniero e quindi obbligato a instaurare un inevitabile campo di contrattazione con i suoi carcerieri, a sfruttare la loro necessità di comunicare al mondo il loro atto terroristico, ad aggirare la censura che gli veniva imposta con l’obiettivo di far trapelare ai famigliali, alle forze dell’ordine, ai suoi colleghi di partito la necessità di uno scambio di prigionieri che — è bene ricordarlo — egli pensava dovesse restare segreto.

Insieme con le parole e le modalità di formazione del discorso ho scoperto anche un autore affascinante sul piano letterario, un uomo che vive una lucida agonia e sceglie di testimoniarla, l’estrema risorsa che trova nella scrittura l’ultimo baluardo. Quella parola disperata, in cui ogni termine è pertinente, essenziale, levigato dall’attesa, dalla speranza, dall’angoscia, dall’odio, dalla paura, dall’amore, racconta un uomo e dà senso a un’epoca con una efficacia a tratti sorprendente ed emotivamente coinvolgente. Per questa ragione queste lettere interessano dal momento che riescono a essere tante cose insieme: belle, aspre, commoventi, lucide, spirituali, angoscianti, sottili, pungenti, amorevoli, disperate, vitali; ma anche in quanto vi scorgiamo le radici di una riflessione sulla qualità della nostra democrazia e sul valore della cittadinanza, che oggi riconosciamo come questioni centrali.

Ripartire dai documenti era necessario, non solo per studiare la vicenda Moro e proseguire