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forma di risarcimento morale e che parte dall’esigenza di interpretare le ragioni umane e politiche del prigioniero e di recuperare il valore del messaggio civile da lui elaborato nel corso di quei tragici 55 giorni.

In tutta evidenza, siamo davanti a una messe di scritti ampia e composita, conosciuta in circostanze e momenti differenti di cui — a parte i ventotto manoscritti effettivamente recapitati durante il sequestro — a tutt’oggi non sono stati ritrovati gli originali, ma solo dattiloscritti o fotocopie di manoscritto. Questo secondo aspetto non è meno importante della censura brigatista, anche perché la scomparsa degli autografi di queste lettere è un comune destino che ha riguardato anche il memoriale di Moro. E ciò è avvenuto sebbene i sequestratori abbiano trascorso il primo mese del rapimento a minacciare di divulgare le notizie che il prigioniero stava loro rivelando in base al principio rivoluzionario che niente doveva essere nascosto al popolo.

In realtà, la lettura dei comunicati delle Br permette di comprendere che l’operazione Moro ebbe da subito una doppia connotazione: quella di un normale sequestro di persona, che seguì tecniche di gestione dell’ostaggio e modalità ricattatorie tipiche di un rapimento ordinario, ma anche una valenza spionistico-informativa, ossia legata al controllo della parola di Moro e alla raccolta di dati sensibili da lui conosciuti in ambito italiano ed estero. Un aspetto che precipitava la vicenda nei drammatici meandri della ragion di Stato, come peraltro rivendicato dallo stesso prigioniero il 29 marzo 1978 nella sua prima lettera a Francesco Cossiga, quella che egli sperava rimanesse riservata, affinché fosse possibile procedere a un negoziato segreto, l’unico a cui affidava la possibilità di avere salva la vita, e che i brigatisti invece resero pubblica senza mettere Moro a conoscenza di questa loro scelta. Quella ragion di Stato, mai disgiunta da un impasto di vanità e di interessi umani, che Moro invocava subito a sua protezione in quanto sapeva che altrimenti, con il trascorrere dei giorni e il solidificarsi degli schieramenti, l’avrebbe travolto. Come accadde puntualmente.

Il primo nucleo di undici missive autografe che sono state in questi mesi oggetto di restauro sono le stesse sulle quali potei lavorare nel 2007, non senza emozione e sotto il vigile sguardo di un brigadiere, presso la sede giudiziaria di Rebibbia, grazie alla disponibilità del Tribunale di Roma cui inoltrai motivata richiesta e alla professionalità del cancelliere Paolo Musio. Oggi a queste lettere, grazie alla professionalità, alla passione e alla determinazione dell’archivista e studioso Michele Di Sivo, se ne possono aggiungere altre tre, che sono pubblicate nella presente edizione a cura dell’Archivio di Stato di Roma, diretto, in una situazione resa sempre più difficile dai continui tagli di bilanci, da Eugenio Lo Sardo, che ha particolarmente caldeggiato questa iniziativa editoriale voluta dall’Amministrazione archivistica e dal Ministero.

Da subito ho avvertito la strumentalità e persino la falsità del dilemma se quelle lettere fossero