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De’ successivi progressi di tale trasformazione ci fanno sufficiente testimonianza gli atti notarili e cancellereschi, che per usanza e per legge dovevano essere scritti in latino, o almeno in una forma che ne avesse l’apparenza.

Nella massima parte di codeste scritture, che specialmente dall’VIII secolo in poi ci son rimaste in gran copia, il capriccio individuale è per solito così sfrenato, e la mancanza d’ogni norma grammaticale così assoluta, da non lasciare ombra di dubbio, che i loro autori non scrivevano nessuna vera lingua, nè viva nè morta; ma storpiavano alla peggio, ognuno a suo modo, la propria parlata, su quello stampo informe di latino che ognun d’essi aveva in capo, o meglio che gli veniva in capo mentre scriveva. E quindi era possibile che, per esempio, un notaro e un prete di Lucca e un altro notaro della vicina Sovana usassero nello stesso tempo (a. 736-740) tre formule orribilmente sgrammaticate rispetto al latino, ma con spropositi del tutto diversi, sicchè ognuna, per di così, costituisce una lingua a sè. Il notaro lucchese, infatti, scriveva: Regnante piissimi dn. nostro Liutprand et Hilprand vir excellentissimis regibus....1 Il prete, invece: Regnante Domnos noster Liutprand et Helprand, Domino juvante, regibus.....2 E il notaro sovanese: Regnante Domni nostri Liutprand et Hilprand viri

  1. Memorie e Documenti per servire all’istoria del Ducato di Lucca; tom. V, par. II, pag. 15.
  2. Ibid., tom., IV, pag. 76.