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due canoni filologici: — Ogni anno si fa un passo verso un nuovo linguaggio; — La parola, piuttosto che un fatto, è un continuo farsi; — e purchè alle metafore di morte e di nascita non si dia maggior valore di quello che hanno realmente, e s’intenda solo che il linguaggio della Francia settentrionale, nell’undecimo secolo, non aveva più tutti que’ principali caratteri che lo facevano chiamar latino, e ne aveva invece acquistati altri, che gli fecero mutar nome, rimanendo pur sempre latino nel fondo.

Se dall’undecimo secolo torniamo indietro, naturalmente i nuovi caratteri vanno scemando, e crescono invece gli antichi. Nel Cantico di Sant’Eulalia, del nono secolo, s’incontrano ancora certe forme derivate dal più che perfetto latino (auret da habuerat, pouret da potuerat, furet da fuerat, ecc.),1 e versi come questi:

E por o fut presentede Maximiien,
Chi rex eret à cels dis sovre pagiens.2

Il giuramento che nello stesso secolo, e precisamente nell’anno 842, Luigi il Germanico prestò, in romana lingua, a suo fratello Carlo il Calvo, e Carlo poi, in teudisca, a lui, dice così: Pro Deo amur et pro Christian poblo et nostro commun salvament,

  1. Uno studio di queste forme può vedersi nel Littré (Op. cit., vol. II, pag. 299 e seg.), di cui tuttavia nessuno accoglie più l’opinione che il Cantico appartenga al decimo secolo. — Forme analoghe a queste dell’antico francese vivono ancora nel franco-provenzale, in molti vernacoli italiani, ecc. (Cfr. Ascoli, Arch. Glott., vol. VIII, pag. 100.)
  2. E però (per hoc) fu presentata a Massimiano, Che re era a que’ di sopra i pagani