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idea in italiano, e potrei anche dire, più esattamente, in fiorentino, perchè quattro quinti di essi son vivi a Firenze, e i rimanenti son creazioni di prosatori e di poeti, fatte però tutte con voci vive fiorentine o foggiate alla fiorentina, ed entrate poi nell’uso comune letterario.
Eppure, quale italiano o qual fiorentino potrebbe dire, preso così all’improvviso, di saperli tutti e centottanta? E chi oserebbe affermare che il plebeismo: andare a rincalzare i cavoli, o l’altro: crepare, siano soltanto della lingua plebea? Domani potrete sentirli in bocca a una persona civile, che l’userà per ischerzo o in un momento di collera; mentre la povera donnicciola, trafitta dal dolore, vi dirà poeticamente che il suo bambino è stato ripreso da Dio, o che è andato in paradiso. E persona civile e donnicciola si troveranno inconsapevolmente, ma sicurissimamente, d’accordo nel non dirvi mai che quell’omaccione grasso e grosso, morto ier l’altro, sia volato al cielo, perchè sanno che vi farebbero ridere.
Certo, il fatale divorzio della lingua scritta dalla parlata è stato possibile in Italia, dove nessuna parlata ha mai definitivamente prevalso; ma non era possibile in Roma, con quell’acutissimo senso pratico de’ suoi cittadini, con quel bisogno ch’essi avevano d’intendersi tra di loro più speditamente che potessero, con quella, insomma, potente e compatta unità di linguaggio; quantunque ogni romano, in fondo, avesse in testa una lingua, che non era precisamente quella di nessun altro romano, e lo stesso scrittore usasse voci e maniere