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ero, il passato fui, eccetera; nè c’è pericolo che dica io ando invece di io vado, nè io dovo invece di io devo, nè oma invece di donna, nè femmino invece di maschio; quantunque queste anomalie non siano punto men difficili di fero, tuli, latum.

Ma segue forse da ciò che la lingua delle orazioni di Cicerone fosse precisamente la stessa che parlava la sua lavandaia, o quella che in tutto e sempre parlava egli medesimo? No davvero!

In questa questione, gli equivoci a me pare che siano nati e nascano ancora da un errore fondamentale, e cioè dal non considerare la lingua nel suo complesso, ma in questa o quella parte soltanto, in questo o quel libro, in questo o quel parlante. Con tal metodo, per quanto la lingua sia potentemente unificata, come era appunto quella di Roma e come è ora quella di Parigi, deve per necessità apparire una specie di Proteo multiforme.

Chi può negare, per esempio, che la lingua di cui si serviva in parlamento il signor Thiers, non fosse la lingua che si parla a Parigi? Eppure, chi oserebbe dire che fosse addirittura quella medesima di cui si serviva il suo portinaio?

Con l’aiuto de’ miei scolari, io son riuscito a mettere insieme un centottanta sinonimi italiani del verbo morire, e tutti, si noti bene, d’uso comune;1 mentre, sia detto per incidenza, il Tommasèo ne dà solo cinque o sei. Son dunque centottanta modi usati e usabili per esprimere una sola

  1. In quanti modi si possa morire in Italia. Seconda edizione. Torino, Paravia, 1883.