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molti anni fa da Max Müller,1 che cioè le lingue romanze non ci presentino il latino quale si sarebbe naturalmente trasformato in bocca a’ Romani dell’Italia e delle provincie, ma quale i popoli germanici poterono apprenderlo e appropriarselo, era addirittura esageratissima: e il Littrè, per solito così temperato, la respingeva “de toutes ses forces.„

Se l’influenza germanica, diceva in sostanza il Littré, avesse avuto il sopravvento che le attribuisce il Müller, più i testi sono antichi, e più ce ne presenterebbero le tracce. Invece, il vero è, che più i testi sono antichi, e più portano impresso il carattere della latinità: vale a dire, più è facile calcare una frase latina sulla frase romanza. Nè mai vi si scorge il momento, il punto, in cui un altro popolo, sostituendosi a quelli delle Gallie, dell’Italia e della Spagna, si sia impossessato dell’idioma de’ vinti e l’abbia parlato secondo una grammatica sua propria. Il centro delle lingue romanze non può dunque spostarsi dal lessico e dalla grammatica latina.2

Il Müller poi, dal canto suo, nelle Nuove Letture sulla Scienza del Linguaggio (VI), temperava di molto la sua prima opinione, dolendosi anzi (ma a torto, ci pare) che, per qualche difetto d’espressione, fosse stata esagerata o frantesa dal suo illustre contradittore, col quale, in fondo, dichia-

  1. Ueber deutsche Schattirung romanischer Worte (Sopra la tinta germanica di alcune parole romanze), nella Zeitschrift del Kuhn, V, 11.
  2. Littrè, Op. cit., vol. I, pag. 96 e seguenti.