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sente congiuntivo dicam, le nuove lingue crearono una nova forma, fondendo l’ausiliare avere con l’infinito. Ma anche questa fusione procedette per gradi: prima di tutto, per evitare amavo (derivante da amabo, amerò, come fava da faba, lavorare da laborare), che si sarebbe confuso con l’imperfetto amava o amavo (da amabam), si ricorse a una perifrasi, già usata in certi casi, e si disse: habeo amare o amare habeo, cioè ho da amare; e poi da amare habeo si fece amar hao, amar ho, amarò,1 e infine amerò; — spagn. amaré = amar-he; portogh., amarei = amar-hei; provenz. amarai = amar-ai; franc. aimerai = aimer-ai.2

Tutte, finalmente, perduto che fu dall’orecchio delle popolazioni romane il sentimento della quantità, ossia delle lunghe e delle brevi, crearono una metrica nova, fondata non più sull’estensione, ma sullo sforzo (ictus) e sull’elevazione della voce, cioè sopra un certo numero di accenti, collocati in un dato numero di sillabe. E si badi, che anche di questa trasformazione ormai non può più dubitarsi che i germi esistessero già nel latino. Infatti, lasciando anche stare

  1. Amarò, come del resto, anche amaraggio, amarajo, ecc., s’incontra ne’ nostri antichi scrittori e vive tuttora in alcuni dialetti.
  2. I Sardi formano ancora il futuro con la perifrasi allo stato sciolto; onde nel Logudoro dicono happ’a ccantare, e nel Campidano happ’a ccantai (ho a cantare = canter-ò). E in perifrasi sciolte s’incontrano il futuro stesso e il condizionale in antichi saggi vernacolari d’altre contrade d’Italia. (Cfr. Ascoli, Arch. Glott., vol. III, pag. 110.) I Rumeni poi lo formano col verbo volere: voiu cuntà, voglio cantare, canterò.