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Né di gran conseguenza possono dirsi anche gli effetti delle altre cause estrinseche.

Pietro Bembo sostenne che l’italiano nascesse, durante le invasioni, da una specie d’ibrido connubio della lingua latina con gl’idiomi de’ barbari.1 Ma a combattere quest’opinione (seguìta già più o meno risolutamente, anche dal Varchi, dal Muratori, dal Tiraboschi, dal Perticari e da molti altri), basterebbe un confronto, anche superficialissimo, tra le leggi fonetiche del gruppo latino e quelle del gruppo teutonico. Basterebbe, cioè, osservare che gl’idiomi teutonici abbondano di aspirazioni, accentano la sillaba della radice, preferiscono le consonanti forti, e offrono molte combinazioni di suoni che mancano affatto alle lingue romanze. Invano si cercherebbe in queste lingue

    continuata tradizione storica, quanto perchè ci ritornò nel quinto secolo co’ Britanni scampati dal ferro degli Anglo-Sassoni. Nell’Europa non latina poi, si parlano ancora idiomi di fondo celtico, all’estremità nord-ovest della gran Brettagna (Scozia occidentale); in alcune parti dell’Irlanda, all’ovest e al sud; in certe isole secondarie di que’ paraggi, e finalmente nell’intera Contea di Galles. Sicché, in complesso, le lingue neoceltiche sono oggi parlate da circa tre milioni, o tre milioni e mezzo d’Europei. (Cfr. , Introduction à l’étude de la Littérature celtique; Paris, 1883; pag. 17-18.)

  1. Ecco le sue precise parole: “Del come [nascesse la nostra Volgar lingua] non si può errare a dire, che essendo la Romana lingua, e quelle de’ Barbari tra sé lontanissime; essi a poco a poco della nostra ora une ora altre voci, e queste troncamente e imperfettamente pigliando; e noi apprendendo similmente delle loro, se ne formasse in processo di tempo, e nascessene una nuova, la quale alcuno odore e dell’una e dell’altre ritenesse, che questa Volgare è, che ora usiamo.„ (Le Prose, lib. I, pag. 33 dell’ediz. di Napoli, 1714.)