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fortemente, ostinatamente, giocondamente, ecc.), nati dall’accoppiamento dell’ablativo mente con l’aggettivo, e nell’uso de’ quali non si tiene più nessun conto del loro valore etimologico, poiché diciamo benissimo mangiare avida-mente, quantunque si mangi con la bocca, e non con la mente; appunto come Ovidio diceva che sarebbe stato forti mente a cavallo, quantunque in realtà ci stesse con le gambe.

In tutti gli scrittori latini s’incontrano spesso le forme accorciate amasti per amavisti, amastis per amavistis, amarunt per amaverunt, corrispondenti, come ognun vede, alle forme italiane amasti, amaste, amarono, alle francesi aimas, aimâtes, aimèrent, alle spagnole amaste, amásteis, amaron, ecc.

Di regola, il verbo habere non era ausiliare. Ma chi non lo sente già usato come tale in alcuni passi, per esempio, di Cicerone? — Ad meam fidem, quam habent spectatam jam et cognitam, confugiunt (Div. Caec., § 11); — Nec scriptum habeo (Verr., act. II, lib. IV, § 36); — Eum autem emptum habebat (Tull., 16); — De Caesare.... satis dictum habebo (Phil., V, § 52).

In Varrone, in Lucrezio e in Virgilio, s’incontra già il pronome mihi (a me), accorciato in mi. E perfino certe particolari maniere di dire, che a noi paiono tutte nostre, si trovano già tali e quali in latino. In Plauto, per esempio, troviamo: Ossa atque pellis sum (son pelle e ossa — Capt., I, 2); — Quod si sciret, esset alia oratio (se lo sapesse, sarebbe un altro discorso — Merc.,