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P. Pagi, che il patriziato di Carlo Magno portasse solamente l’obbligo e l’onore della difesa del papa e del popolo romano. Aggiunge poi che console, duca e patrizio erano sinonimi in questi tempi, e tutti portavano signoria, come i dogi di Venezia, i duchi di Napoli e di Gaeta, confondendo con questi i titoli di patrizio dati dai cesari ad Odoacre ed a Teodorico.
Ora secondo lui essendo i papi patrizi di Ravenna e di essa avendo perciò la signoria, ne derivava che chi era patrizio di Roma doveva pure esserne padrone. Che le chiavi ed il vessillo provassero signoria non è vero; che i papi quando le mandarono a Carlo Martello ed a Pipino, non intesero mai di dar loro la signoria di Roma, la quale allora spettava ai Bizantini, e nemmeno questi accettando le chiavi ed il vessillo non pretesero mai di ingerirsi alcun che nel governo di quella città, come neppure Carlo Magno per aver ricevuto dal patriarca di Gerusalemme le chiavi del S. Sepolcro, del Calvario, della città e del monte di Sion col vessillo della croce, credette di diventarne signore1. Le parole ad regnum direximus dimostrò il Troya2 doversi leggere ad rogum direximus, cioè rogantes, che significano ben altra cosa che l’offerta d’un regno. Così il vedersi sulle monete di Venezia S. Marco che dà il vessillo al doge, impronta imitata dalle monete bizantine solamente nel xii secolo, allude alla protezione di detto santo, da Dio e dal quale dichiarava quella repubblica dipendere.
Se il papa proclamò Pipino ed i suoi figliuoli patrizi di Roma, si fu per dar loro un titolo, del quale l’imperatore Zenone aveva voluto onorare per amicarseli due potenti re e per averne all’occasione aiuto; in quanto ai titoli di duca e di console, questo allora usavasi dai cesari, e quello significava governatore, quantunque benissimo quando trovaronsi privi di forze in Italia gli imperatori, essi cercassero di rendersi indipendenti, ma non già che duca significasse signore, e per servirci di una prova che ci offre lo stesso Muratori3, vi leggiamo che Arigiso duca di Benevento mandò inviati al greco imperatore chiamandogli l’onore del patriziato col ducato di Benevento e di Napoli promittens ei tam in tonsura quam in vestibus usu Graecorum perfrui, sub eiusdem imperatoris ditione, cioè facendosi suo vassallo, come i papi, creando patrizi i re franchi, li facevano in Roma quasi loro dipendenti.