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NOTA I.
Coll’occasione che mi si presenta di parlare delle monete battute dagli imperatori di Costantinopoli in Italia nel vi e vii secolo, e specialmente dei tremissi e silique d’argento, credo utile di dire qualche cosa di quelle dai Longobardi in questa penisola a loro imitazione coniate.
Questa nazione germanica dopo il suo stabilimento in Italia nella seconda metà del vi secolo, per quanto sinora consta, moneta non coniò col nome ed effigie de’ proprii sovrani prima del 600, anzi nemmeno a quanto pare prima della metà di tal secolo. Ora sovente e quasi esclusivamente nella valle del Po, trovansi tremissi portanti il nome dell’imperatore Maurizio Tiberio, ma di forma e tipo affatto diversi da quelli di Bisanzio, essendo più larghi e scudellati con attorno un grosso orlo di rilievo del peso non più di grani 28 come gli altri, ma appena di grani 25 uguali perciò a diversi tremissi che pesai coi nomi di Ariperto, Cuniperto e Luitprando, ed a caratti 16 al più, e che in tutto il loro assieme hanno una grandissima rassomiglianza coi tremissi di quest’ultimo.
Questi pezzi perciò dai primari numismatici della Lombardia furono classificati alla testa della serie delle monete di questi re, e credo con ragione, che, ad eccezione dei Goti, nessuna delle nazioni barbare quando si stabilì in qualche provincia dell’impero romano subito cominciò a battere moneta propria, ma tutte, sia pel rispetto che ancora aveasi per i cesari, o sia per essere quella la sola moneta che allora conoscevasi nel mondo civilizzato, batterono pezzi d’oro simili agli imperiali, come in tutte le collezioni può vedersi. In seguito sui tremissi quei re misero la loro effigie in profilo col loro nome, e nel rovescio attorno ad una figura colle ali che prima rappresentava la vittoria, scrissero il nome dell’Arcangelo Michele protettore della nazione.
Sino ad alcuni anni fa altra moneta dei Longobardi fuori di questa d’oro non conoscevasi, quando nel 1833 presso la città di Biella in Piemonte si scoperse una quantità di monetuccie bracteate d’argento assai ben conservate unitamente ad una dozzina di tremissi nuovi di zecca di Luitprando, e di esse il S. Quintino avendo potuto esaminare una cinquantina, ne fece oggetto di dotta memoria che lesse a Napoli nell’Accademia Pontaniana1.
Di questi piccoli pezzi, de’ quali io ebbi la quasi totalità, credo utile di dare l’impronta, scegliendo le principali tra le grandi varietà di conio coi quali appare essere stati battuti (Tav. X. Pezzi 11 senza numero).
Essi sono tutti fatti di una sottilissima lamina d’argento a denari 11 incirca e del peso caduno di grani 3 ⅓.
Il metodo col quale vennero lavorati è lo stesso che quello usato nelle
- ↑ Il progresso. Opera periodica di Napoli. Anno 1834. Vol. VIII, pag. 216.