la ruta, la mandragora, e tutte l’erbe di San Giovanni; tra gli alberi, la quercia, il frassino, la betulla, il cipresso, il pino, il lauro, la vite e l’olivo come onorati di culto speciale; tra le biade il frumento, tra i legumi il fagiuolo, la fava, il pisello, il cavolo. Ma dopo aver fatto una così lunga ed arida enumerazione di piante ed erbe, dovrei pure farne un po’ di storia, e la storia sarebbe assai lunga. Poichè non avvengono soltanto nella storia mitica numerosi spostamenti cronologici, ma ancora spostamenti geografici, de’ quali ci conviene tener conto. Nel ricevere una tradizione da un altro popolo o da un’altra età, il popolo, per mantenerla viva, ha uopo di rinfrescarla, di farla più evidente con nuovi particolari più vicini, più proprî, più popolari, più intelligibili. In questo lavoro di riduzione ad un uso più contemporaneo, e, per così dire, più nazionale, il popolo procede per via d’analogia. In due miei lavori sopra la fauna e sopra la flora mitologica ebbi occasione di rilevare parecchi esempî di questo singolare fenomeno storico. Nelle sue trasfigurazioni mitiche, il popolo s’arresta spesso ad analogie grossolane ed esterne, delle quali i nostri dotti naturalisti saprebbero difficilmente rendersi ragione. Ogni paese ha i suoi alberi prediletti e più coltivati di altri. Così avviene che una gran parte dell’India centrale si trovi coperta dalla ficus religiosa e della palma, una gran parte dell’Europa centrale di quercie, di betulle, di conifere. Perciò l’ufficio che nel racconto indiano della Rosa Bakavali sostengono il leone, lo sciacallo, ed il fico ingrato, passa nei