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Reame di Napoli morto esule dalla patria alcune settimane prima a Firenze.

Sin qui, veramente, nulla di straordinario e da gettare il disordine negli I. e R. uffici del commissariato interno; imperocchè, nella Toscana del 1831, benchè la libertà fosse merce assolutamente proibita e a capo della polizia fosse il cav. Ciantelli, un birro della più bell’acqua, pure il governo, che non aveva intieramente rinnegato le gloriose tradizioni dei tempi di Pietro Leopoldo, amava di mostrarsi umano ed ospitale coi profughi. I patriotti italiani che avevano avuto la fortuna di sottrarsi colla fuga alle forche e alle galere dell’Austria, del duca di Modena, del papa e del re di Napoli, trovavano in Toscana, nella mite e gentile Toscana come anche allora si diceva, non diremo sempre, ma quasi sempre, onesto ricovero, e qualche volta anche uffici pubblici con grave scandalo dei codini indigeni e della I. e R. cancelleria di Vienna, ma sopratutto d’un giornalucolo modenese — la Voce della Verità — dalle cui colonne i sanfedisti più intransigenti di quei tempi ruttavano, tre volte alla settimana, fiamme e bile contro il progresso e la libertà.

Così il Colletta, cacciato da Napoli in seguito ai rivolgimenti del 1821, dopo alcuni anni di relegazione in Moravia, aveva potuto fissare la sua stanza a Firenze e scrivervi, senza mistero e colla collaborazione più o meno velata di Gino Capponi, di Pietro Giordani e di Giambattista Niccolini, tre santi padri del credo liberale, quella sua storia, ove i Borboni sono consacrati all’infamia.

Ma codesta ospitalità non impediva alla Polizia di spiare gli andamenti del partito liberale. La Polizia poteva chiudere un occhio, ma tutti e due, no. Difatti, quella mattina, non solo gli aveva spalancati tutti e due, ma per vederci meglio aveva bravamente inforcato gli occhiali d’ingrandimento.



Quando a Dio piacque, il Bargello fece ritorno in ufficio. Era in faccia del colore del zafferano.