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tempi aveva goduto d’un reggimento patriarcale, nemico, per tradizionale mitezza, d’ogni estrema misura, il Granduca aveva creduto suo dovere di stringere i freni, e obbedendo alla parola d’ordine partita da Vienna, aveva posto alla testa della polizia (chiamata allora Buon Groverno) un uomo dal polso di ferro, Torello Ciantelli, mente angusta, anima di birro, che s’atteggiava a salvatore del trono e dell’altare minacciati dall’onda rivoluzionaria. Ma, in sostanza, sino allora, il Ciantelli non aveva avuto che rare occasioni di stringere i freni essendo quiete le popolazioni ed in generale affezionate al governo granducale, che restaurato sedici anni innanzi non aveva portato dall’esilio, come gli altri, nè rancori da sfogare, nè vendette da compiere. La stessa Livorno, città quasi sempre ritenuta ingovernabile per gli elementi torbidi che vi chiamava il commercio, sonnecchiava, e più di Livorno sonnecchiava il suo governatore, S. E. il marchese Paolo Garzoni-Venturi, maggior generale e consigliere intimo di S. A. I. e R. il Granduca: uomo eccellente, gentiluomo perfetto, sincero servitore del principe, convinto sostenitore delle istituzioni assolute, ma incapace d’una misura precipitata, violenta, contro i nemici dell’uno e delle altre.

Era, insomma, il nostro marchese uno di quegli uomini che come Aurelio Puccini, come il conte Vittorio Fossombroni, allora capo del governo, come don Neri Corsini, segretario di Stato per l’interno, credevano che gli Stati, più che colle manette, i birri e le prigioni, si governassero colle mezze misure, coi cerottini e, sopratutto, con delle buone e copiose decozioni di papavero e di lattuga.

Per loro, lo Stato ideale era un convento di frati nell’atto di fare beatamente il chilo o di dormire dopo una giornata passata colle mani alla cintola. Buona gente, in fondo, che spiccava d’una luce singolarmente benevola in un tempo in cui sull’orizzonte italiano si disegnavano sinistramente le bieche figure del principe di Canosa, del cardinale Rivarola, del Riccini, del Garofalo, del Galateri e del Salvotti, che l’ufficio di ministri, di porporati, o di giudici avvilivano sino a quello di boia.