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CAPITOLO XXXXIX.
La pazienza del capo della Polizia era messa nel 1846 a prove durissime. Sbarazzatosi il Bologna del D’Azeglio, ecco cadergli tra capo e collo, come una tegola, la minaccia d’una visita di Giovanni Berchet, il Tirteo d’Italia, l’autore delle poesie più rivoluzionarie che allora corressero nella penisola!
Anche la possibilità d’una visita del Berchet era un fatto strano che avrebbe dato da meditare al Bologna, se la costui mente, piccina e piena di pregiudizi, fosse stata capace di meditare. Due o tre anni innanzi, allo stesso Berchet nemmeno in sogno sarebbe venuta l’idea che egli, con quel po’ po’ di bagaglio poetico incendiario che portava addosso, potesse domandare al Governo Toscano di dare una capatina, così fra lo studioso e il viaggiatore, sino a Firenze; ma nel maggio di quell’anno, quantunque Gregorio XVI ancora sedesse sul trono pontificio e il principe di Metternich imperasse a Vienna, una corsa del Berchet sino a Firenze non sembrava impossibile. Che era dunque accaduto? Una cosa molto semplice, che la mente del Bologna non voleva comprendere. Il sentimento della libertà s’era infiltrato negli animi di tutti gl’italiani e senza arrivare sino a quello dei ministri e dei sovrani, questi però sviava dalle misure reazionarie dei vecchi tempi. Naturalmente, i primi a subirne gli effetti dovevano essere quelli che nella stessa reazione avevano conservato un certo spirito di mitezza: e questi erano precisamente Leopoldo II e i suoi ministri.
Il Cempini, l’Humbourg, il Paüer, il Bologna, avevano un bel ricordarsi che erano ministri d’un Governo assoluto,