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CAPITOLO XXXVII.

Massimo d’Azeglio che credeva di rifare l’Italia non con le sètte, ma coll’accordo dei principi e dei popoli sul terreno delle riforme, nel suo viaggio in Romagna ideato e compiuto con tali intendimenti, non era riuscito che in parte a far abbandonare ai liberali di quella regione il loro vecchio programma. A Rimini e in altre località delle Legazioni, erano scoppiati dei moti, che i birri e i gendarmi del vecchio Pontefice avevano subitamente e brutalmente represso. Ma quei moti, invece di far perdere di animo gl’iniziatori del movimento delle riforme a spizzico, fatte sotto l’egida di principi e di ministri che costantemente le avevano avversate, ed alcuni combattute sin’anco colla galera, la forca e la fucilazione, erano serviti a loro, specie al D’Azeglio, per dimostrare come le stesse riforme fossero necessarie. Ed obbedendo a questo concetto, dettò il suo primo scritto politico: Degli Ultimi Casi di Romagna, che col proprio nome in fronte, fece stampare alla macchia in Toscana.

La clandestinità dell’opuscolo non significava che il d’Azeglio avesse paura, come il Giusti, di compromettersi colla Polizia: era una necessità dei tempi che non ammetteva in tutta la penisola che un solo genere di pubblicità: quella preventivamente approvata dalla Censura. Ma, col nome che vi appose, assumeva su di sè tutta la responsabilità di quell’atto; e perchè la taccia di paura non gli si appioppasse nemmeno per burla, lasciato il Piemonte, se ne venne in Toscana per curarvi la stampa del suo scritto. Così la Polizia granducale, insieme al libro, poteva avere sottomano lo scrittore.