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e magari la relegazione in fortezza, non erano più sufficienti per infrenare quel nuovo torrente. L’agitazione, benchè allora fosse soltanto morale, minacciava di traboccare, e i principi, che avevano imparato come bastasse ricorrere ai vecchi mezzi di repressione per ristabilire la calma, vi ricorsero. Ma il moto non poteva più soffocarsi; non si trattava più di contenere pochi cospiratori, ma l’intiera nazione. Pure i principi vi si provarono, non escluso Leopoldo II, che qualche anno dopo doveva precedere lo stesso Carlo Alberto nel promettere ed accordare dapprima leggi informate ad idee di progresso, poi Statuti e Camere.

E Sua Altezza Imperiale e Reale, il Granduca di Toscana, che pure nei tempi di oppressione generale s’era tenuto col Fossombroni e col Corsini lontano dalle esagerazioni dei governi reazionarî, perduti codesti due uomini di Stato, parve che insieme a loro perdesse ogni memoria dei precedenti di famiglia. Posto a capo del Governo il Cempini, vecchio pubblicano, mise agli esterni il Paüer e all’interno l’Humbourg, gente dalla mente piccina, da affogare in un bicchiere d’acqua, ma gesuitante ed austriacante come da Pietro Leopoldo I non s’era mai vista l’uguale in Toscana. Ad essi faceva sostegno il Bologna, presidente del Buon Governo, che il Granduca nominava Consigliere di Stato, ufficio che portava seco il titolo di Eccellenza.

E quasi che il secolo, che toccava la sua metà fosse ritornato sino ai bei tempi in cui, cacciati i francesi, si ripristinavano gli ordinamenti e le leggi manipolate prima della Rivoluzione, codesta gente credette bastasse prendere un atteggiamento — magari da Metternich in ottantaquattresimo — perchè birri e preti intonassero il De Profundis sul movimento liberale, che abbracciando l’intiera penisola, minacciava di mandare a gambe in aria il vecchio edificio.

Uno dei momenti più culminanti di siffatto moto rea-