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codesto nuovo indirizzo erano il Gioberti, il Balbo, Massimo d’Azeglio, Vincenzio Salvagnoli. Mentre il primo, da Bruxelles, gettava le basi del nuovo partito, tutti gli altri, a seconda delle loro attitudini, lo colorivano nella penisola. Erano i tempi in cui la pubblicazione d’un libro, magari d’un opuscolo, formava un avvenimento. Il D’Azeglio, anzi, faceva qualche cosa di più. Egli intraprese quel famoso viaggio di Romagna che doveva provocare da Carlo Alberto le dichiarazioni che ciascuno può leggere nell’ultimo capitolo dei Miei Ricordi dell’autore dell’Ettore Fieramosca, e che dimostrano come nell’uomo del 1821 non fosse mai venuto meno il suo amore per l’indipendenza d’Italia.

Un nuovo spirito sorvolava dall’un capo all’altro della penisola; la Polizia, in qualche Stato, diventava meno vessatoria; qualche principe si compiaceva a mostrarsi meno legato alle massime reazionarie proclamate dalla Santa Alleanza. Da tutti si credeva ad una nuova èra. Quale fosse poi codesta èra non si sapeva dire precisamente; ma si capiva che coll’aprirsi della stessa sarebbero avvenute cose importanti. C’era dell’imprevidenza, della spensieratezza, della leggerezza in tutto ciò. Si dimenticava la storia d’Italia; s’obliava il papato, che allora era rappresentatato nel modo più sconcio da Gregorio XVI, un frate d’intelletto cortissimo, ma amante del Chianti e del Pomino; si obliava fin’anco l’Austria; e l’obliava il patriarca dei nuovi credenti, il Gioberti, il quale, nel suo Primato, di tutto parlava, meno di lei: silenzio che i partigiani del filosofo torinese dicevano più eloquente della stessa parola, quasi che duecentomila baionette si potessero sopprimere con delle fiorire rettoriche.

Le polizie, soprattutto la Toscana, rimanevano intontite dinanzi quel movimento, che uscendo dalla cerchia delle solite sètte, abbracciava tutto il paese. Si capiva che i soliti arresti, i soliti avvertimenti del signor commissario, il confino,