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CAPITOLO XXXVI.
Le prime avvisaglie.
Fra il 1844 e il 1845 un importante movimento si compiva nella opinione pubblica italiana. Le vecchie sètte, le sètte che avevano imperato sotterraneamente nella penisola da oltre trent’anni ed avevano seminato di cospiratori ogni angolo d’Italia, cominciavano a sparire o a trasformarsi. Esse non si credevano più necessarie, almeno nella forma che avevano fin’allora assunto e in quanto ai mezzi che avevano adoperato, a formare la nuova Italia. Giuseppe Mazzini cessava quasi affatto di disporre a suo talento delle moltitudini. Qua e là e’ erano ancora dei cospiratori modellati sul vecchio stampo e che credevano alle insurrezioni popolari o alla efficacia politica dei proclami; ma nelle classi più elevate della società, sopratutto nei centri popolosi, come a Torino, a Milano, a Firenze, a Roma, cominciava a farsi strada un nuovo concetto, quello cioè, che l’Italia potesse sorgere a vita novella non per virtù di cospiratori, ma per accordo di popoli e di principi. Era un’illusione come i fatti in seguito si presero la dolorosa missione di provare; ma, quell’illusione ebbe allora per sè tutti gl’italiani, da pochi in fuori, alla testa dei quali, si capisce, il Mazzini, che non ripiegò mai la sua bandiera, nè il suo credo volle mai acconciare alle esigenze de’ tempi, e fra gli uomini di studio, che dovevano fornire a quel nuovo indirizzo politico i suoi più illustri e poderosi partigiani, il Niccolini, l’autore di Giovanni da Procida, che in quei giorni, quasi a protestare contro coloro che volevano trasformare l’Italia in qualche cosa ch’era tra l’accademia e la sagrestia, tra il credo dei carbonari e il breviario del prete, lanciava fra la folla plaudente ai nuovi iddii, il suo Arnaldo da Brescia. Corifei di