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animuccia da femmina intonasse il mea culpa. Quando i primi calcinacci cominciarono a piovergli sul capo, egli già da qualche tempo ed appunto per quella sua benedetta paura dei calcinacci, aveva messo gli strali della sua musa al servizio delle persone amanti dell’ordine che in Toscana, nel 1846, quando il Giusti cominciò a tirare un frego sul suo passato di poeta rivoluzionario, ritenevano che si camminasse con passo di soverchio accelerato.

Imperocchè, ormai è risaputo, e quanto verremo narrando non farà che riconfermarlo, che se nel Giusti la strofa volava come un dardo, l’animo era pacifico e il carattere frollo. In lui la satira non era che una esercitazione letteraria. Scrisse l’Incoronazione, lo Stivale, il Brindisi di Girella, come avrebbe scritto un sonetto per gli occhi di Nice per la monacazione d’una fanciulla di famiglia patrizia, se invece di nascere nel nostro secolo, fosse nato ai tempi dei pastori e delle pastorelle d’Arcadia. Era insomma un cultore dell’arte per l’arte, o meglio della satira per la satira. L’anima del cittadino non valeva la frusta del poeta.

Siamo però giusti: lo stesso poeta lo sapeva; e, quel ch’è meglio, lo confessava. Egli non s’atteggiò mai ad uomo d’azione. Era troppo prudente per farlo. Nel suo schizzo autobiografico diretto, sotto forma di lettera, il 14 settembre 1844, ad Atto Vannucci, scriveva: „Per quanto possano essere corse alcune voci oziose sul conto mio, dichiaro che non ho mai patito veruna molestia nè per parte del Governo, nè per parte del pubblico, e rigetto da me la nomea di vittima e di perseguitato....„ Sotto le quali parole non deve cercarsi nessun sentimento di modestia; imperocchè, il Governo Toscano, per quanto, di tratto in tratto, i versi del Giusti gli portassero via a pezzi la pelle, lo ritenne sempre come un’Aristofone perfettamente innocuo, un Giove-