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lità con tutto il resto non era che una fantasmagoria del cervello ammalato d’un birro.

Ma fra il 1831 e il 1846, profondamente impensieriva i governanti, non la espressione più o meno equivoca d’un articolo già passato sotto le forbici della censura e della Polizia, ma, all’incontro, la stampa clandestina, specie la mazziniana, che per la via di Livorno, filtrava, malgrado i divieti, le perquisizioni e qualche volta il carcere e le multe, nel resto del Granducato.

L’Apostolato Popolare, sopratutto, che il Mazzini pubblicava a Londra, fornì per lungo tempo alla Polizia motivi di ricerche, di arresti e di processure. Il giornale mazziniano correva dall’un capo all’altro della Toscana senza che mai la Polizia, per quanto s’affaccendasse e si sbracciasse, potesse arrivare a mettere le zanne sugli introduttori. Era allora quel giornale la lettura favorita dei liberali, compresi quelli che in seguito alla comparsa dei libri del Gioberti, del Balbo e del d’Azeglio, mutarono convinzioni, e deposte le idee di unità e di repubblica, si convertirono al sistema delle riforme a spizzico. Già alla Polizia, nel 1838, non era ignoto come il Mazzini tenesse un carteggio assiduo con Pietro Bastogi, F. D. Guerrazzi e Carlo Bini a Livorno, col Ruschi e l’avv. Roncioni a Pisa, con Giuseppe Mazzoni a Prato, con Vincenzo Manteri e G. P. Vieusseux a Firenze; ma sapeva pure come siffatto carteggio, benchè politico, non fosse d’organizzazione insurrezionale; e non dandosene per intesa, pur sorvegliava i corrispondenti del grande agitatore, se non altro perchè dall’innocuo campo della contemplazione non passassero a quello temuto dei fatti. Ma i diffonditori del giornale, ove con calda, eloquente e tribunizia parola il Mazzini cercava di scuotere gl’italiani sostenendo imperterrito il programma che fu quello di tutta la sua vita, cioè, quello di un’Italia una e