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sero stati accordati simoniacamente dall’arcivescovo monsignor Morali. Come si vede, la Toscana era ritornata ai tempi di Leone X, quando Lutero fulminava i venditori di Cristo e della sua Chiesa, allora accampati nelle stanze che Raffaello istoriava; quasi che l’arte col suo splendore potesse nascondere il marcio che sgambettava allegramente alla luce proiettata da quelle divine composizioni, che si chiamano la Disputa del Sacramento e la Scuola d’Atene.

Il Governo non rimase inerte dinanzi a quella corruzione innalzata a dignità d’istituzione, ed allontanò da Firenze quattro o cinque preti che formavano il consiglio intimo del simoniaco Arcivescovo; il quale, meno la paura e la vergogna, non ebbe a risentire altro danno da quello scandalo, che la sua condotta d’indegno pastore d’anime aveva sollevato.

Ma quando egli morì (8 Ottobre 1826), gli epigrammi sanguinosi, le poesie mordaci, fioccarono da ogni parte sulla sua tomba; e non fu certamente colpa degli autori di quegli epigrammi e di quelle poesie, se il nome di monsignor Pier Francesco Morali, come quello di Ruggiero Arcivescovo di Pisa, non fu tramandato ai posteri in versi da assicurargli in eterno la riprovazione dei giusti.

Uno di quegli epigrammi, sotto forma di epigrafe, diceva:

     “Qui riposa in santa pace
Pier Francesco sommo prete;
Ricco egli era tra i suoi pari,
Ma se gemme, se denari
Dissipò, qual meraviglia,
Era padre di famiglia!„