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veramente, ma non senza decoro, con quei pochi che ricavava dalla sua collaborazione all’Antologia — amava risolvere le questioni, anche letterarie, più colla spada che coll’inchiostro. A questo egli chiedeva il pane; si serviva dell’altra quando credeva che si trovasse impegnato l’onor suo quello d’Italia, che per lui, valoroso soldato ed ardente patriotta, era lo stesso. E lasciata ad altri la cura di rispondere al Lamartine magari in terzine di sapore dantesco1, egli mandò al poeta francese, che allora occupava il posto di segretario della legazione di S. M. Cristianissima presso il governo toscano, un cartello di sfida.
Alla Polizia del Granduca, quell’attività d’uomini che la diplomazia per bocca d’un figlio d’Apollo, nonostante le recenti condanne al carcere duro di Milano e di Venezia e i patiboli innalzati nelle Romagne dai cardinali legati, si ostinava a chiamare un popolo di morti, non poteva andare a sangue.
Aveva paura che quella poussière humaine, ripresi i muscoli e rifatte le ossa, scendesse un giorno in istrada e facesse bravamente alle schioppettate; e si mise subito in moto per impedire il duello. O non era l’Italia un cimitero di vivi?
Ma la Polizia, nel prendere le sue misure, s’impappinò come un filodrammatico o un professore novellino, smarrendosi maledettamente in una fitta selva d’ordini e di contrordini; e mentre dava la caccia al Pepe e al Lamartine fuori le porte di Firenze, a Pisa, a Livorno, a Prato, al confine, mettendo la febbre addosso ai Governatori, ai Commissari, ai Vicari e ai Bargelli, insomma a tutta l’alta e bassa sbirraglia del Granducato, il nostro colonnello e il suo avversario si battevano tranquillamente nel giardino del Palazzo della Legazione di Francia.
- ↑ Rispose con alcune terzine Giuseppe Borghi; ma la poesia, destinata a comparire nell’Antologia, non ebbe l’approvazione della censura.