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meno crudele; che gli pareva impossibile che gli si rifiutasse di rimanere in una terra, il cui governo godeva fama d’essere pieno di compassione per tutti gl’infelici; e conchiudeva: „Altezza! La Toscana è stata sempre l’asilo di tutte le sventure! Non si dica, no, che la sua vecchia gloriosa ospitalità, tanto decantata nel mondo, giaccia ora racchiusa ne’ sepolcri di San Lorenzo, insieme ai resti mortali di Ferdinando III, vostro augusto genitore!„

Il Granduca accordò ancora un altro termine perchè il Borrelli uscisse dallo Stato. Questa volta era d’un mese. Frattanto l’esule disgraziato non stava colle mani alla cintola. Per mezzo del principe di Piombino aveva supplicato il Papa che lo accogliesse nei suoi Stati, ma il pontefice oppose un rifiuto, dicendo che già c’erano a Roma più di mille esuli, compresi gli spagnuoli, e la prudenza gli comandava di non accrescere un tal numero. Infine, il principe di Cariati, da Napoli, scrisse al Fossombroni, che il Borrelli fosse trattato meno duramente; e il Corsini, con biglietto del 30 settembre 1824, ordinava al Puccini, che senza declinare dalle misure di rigore prese sul conto del Borrelli, si esortasse ancora quest’ultimo ad uscire dal Granducato, senza però che si ricorresse alla forza ove egli, alle ingiunzioni della Polizia, non ottemperasse.

O don Neri Corsini! Vostra Eccellenza, senza volerlo, col suo biglietto del 30 settembre, dava la giusta misura dell’indole del governo toscano d’oltre mezzo secolo fa!

Il Borrelli, a mente degli ordini ministeriali, fu esortato ad uscire; ma egli tenne duro. La Polizia, naturalmente, non l’accompagnò al confine.

In verità, nè nel Fossombroni, nè nel Corsini, nè tampoco nel Puccini c’era la stoffa del birro. Quest’ultimo, che non poteva dimenticare d’essere stato giacobino — e caldo giacobino — il 6 giugno 1824 volle affrontare arditamente