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ammalato e sperava da un lembo di cielo italiano la guarigione.

Il Borrelli aveva avuto grandissima parte nel recente dramma napoletano. Dotto giureconsulto, valente oratore, buon letterato, caldo patriotta, nella sua qualità di Presidente della Camera dei Deputati prima che questa si sciogliesse dinanzi alle baionette straniere invocate da re Ferdinando (il re-Nasone), sacrò all’infamia il sovrano spergiuro. Ristabilito a Napoli il governo assoluto, fu il Borrelli relegato in Austria insieme ai generali Colletta, Arcovito e Petrinelli e al colonnello Gabriele Pepe.

Pare che al Governo napoletano pesasse più l’eloquenza e lo spirito intraprendente del Borrelli che le spade del Colletta, dell’Arcovito e del Pepe e la dottrina del Poerio; imperocchè, quantunque il Fossombroni, tirato pel collo, avesse accordato l’ospitalità, ai compagni del Borrelli, compreso il generale barone d’Arcovito, il quale, cacciato da Bologna non implorò invano la bontà di Ferdinando III, fu inesorabile per l’ex-presidente della Camera napoletana. Gli si rispose che venisse pure in Toscana, ma soltanto per attraversarla e condursi in altro Stato; e la concessione il Fossombroni accompagnava colla condizione, che prima di mettere piede il Borrelli nel Granducato, provasse che lo Stato in cui intendeva recarsi non l’avrebbe respinto. Il Borrelli rispose che si sarebbe recato a Lucca, ove il duca gli aveva accordato asilo. E venne in Toscana; ma arrivato, insieme alla moglie, a Pietrasanta, le autorità lucchesi lo respinsero di là dal confine, dicendo che il permesso già graziosamente accordato dal duca, era stato revocato.

Venuto a Firenze, insieme al barone Poerio si recò dal Puccini perchè non lo si scacciasse dalla Toscana. Gli furono concessi otto giorni per uscire dallo Stato. Spirato il qual termine e trovandosi egli sempre a Firenze, gli fu intimato che obbedisse entro ventiquattro ore. Allora il Borrelli scrisse al Granduca (era poco prima salito al trono Leopoldo II) una lettera commoventissima: che non gli si negasse quell’ultimo conforto di stare in terra italiana; che l’esilio, nella mite e gentile Toscana, gli sarebbe parso

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