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là. La maggior parte erano mujiks, avvezzi a coricarsi sul duro ed a cui le tavole di un ponte dovevano bastare. Pur avrebbero assai male accolto, senza dubbio, il malaccorto che li avesse svegliati a calci.

Michele Strogoff badava dunque a non urtare nessuno: andando così verso l’estremità del battello, non aveva altra idea fuorchè combattere il sonno con una passeggiata un po’ più lunga.

Ora egli era arrivato alla parte anteriore del ponte e già saliva la scala del castello di prua, quando intese parlare accanto a sè. Si arrestò. Le voci parevano venire da un crocchio di passeggieri avviluppati di scialli e di coperte, che era impossibile riconoscere nell’ombra. Ma accadeva talvolta, se il camino dello steam-boat in mezzo alle volute di fumo mandava qualche fiamma rossiccia, che paresse di veder correre delle scintille attraverso il crocchio, come se migliaja di pagliuzze si fossero accese a un tratto.

Michele Strogoff stava per passar oltre, quando udì più distintamente certe parole pronunziate in quella lingua bizzarra che già aveva colpito le sue orecchie nella notte, sul campo della fiera.

Per istinto gli venne in mente di ascoltare; protetto dall’ombra del castello egli non poteva essere veduto; e quanto a vedere i passeggieri che discorrevano, gli era assolutamente impossibile. Dovette adunque accontentarsi di porgere ascolto.

Le prime parole non avevano alcuna importanza, — almeno per lui — ma gli permisero di riconoscere le due voci di donna e d’uomo che aveva inteso a Nijni-Novgorod. D’onde raddoppiamento d’attenzione da parte sua. Non era impos-