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michele strogoff

trebbe chiamare lo sgombero della vasta pianura. Si ripiegavano le tele tese dinanzi alle bottegucce; i teatri ambulanti se ne andarono a bocconi, cessarono le danze ed i canti; tacquero le trombe dei saltimbanchi, si spensero i fuochi, si allentarono le corde degli equilibristi; ed i vecchi cavalli che spingevano i casotti ambulanti tornarono dalla scuderia agli stangoni. Agenti e soldati collo scudiscio e colla bacchetta in mano stimolavano i tardivi, e talvolta atterravano le tende prima ancora che i poveri zingari le avessero lasciate.

Evidentemente, sotto l’influenza di quelle misure, prima di sera la piazza di Nijni-Novgorod doveva essere del tutto sgombra, ed al tumulto del gran mercato doveva succedere il silenzio del deserto. E bisogna pur ripeterlo — perchè era un aggravio necessario di quelle misure — a tutti quei nomadi che il decreto di espulsione colpiva direttamente, erano anche chiuse le steppe della Siberia, onde toccherebbe loro gettarsi nel sud del mar Caspio, in Persia, in Turchia o nelle pianure del Turkestan. I posti dell’Ural e delle montagne, che formano come a dire il prolungamento di questo fiume nella frontiera russa, non avrebbero loro permesso di riposare. Era dunque un migliajo di verste che dovevano necessariamente percorrere prima di poter premere un suolo libero.

Al momento in cui la lettura dell’ordinanza era stata fatta dal mastro di polizia, Michele Strogoff fu colpito da una coincidenza che corse istintivamente nel suo spirito.

— Singolare coincidenza, pensò egli, fra questa ordinanza che caccia gli stranieri originarî dell’Asia, e le parole scambiate stanotte fra quei due