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— 56 — michele strogoff |
i denti magnifici, il colorito abbagliante, che spiccava vie più per la nerezza delle sopracciglia congiunte con un lieve tratto di collirio e per la sfumatura di nero delle palpebre, fatta con un po’ di piombaggine.
Ai piedi delle terrazze, riparate sotto gli stendardi e le orifiamme, vegliavano le guardie private dell’Emiro, con due sciabole ricurve al fianco, pugnale alla cintura, in pugno la lancia lunga dieci piedi. Alcuni di questi Tartari portavano bastoni bianchi, altri alabarde enormi, ornate di fiocchetti di fili d’argento e d’oro.
Tutt’intorno a quest’ampio altipiano, fin sulle falde scoscese, di cui il Tomks bagnava la base, si pigiava una folla cosmopolita, composta di tutti gli elementi indigeni dell’Asia centrale. Vi erano gli Usbechi coi loro berrettoni di pelle di pecora nera, la loro barba rossa, i loro occhi bigi ed il loro arkaluk, specie di tunica tagliata alla foggia tartara. V’erano i Turcomanni vestiti del costume nazionale, cioè a dire larghi calzoni dai colori vivaci, con vesti e mantelli tessuti di pelo di cammello, berretti rossi conici o schiacciati, alti stivaloni di cuojo di Russia, coll’acciarino e il coltello appesi alla cintola per mezzo d’una correggia. Colà, presso ai loro padroni, si vedevano quelle donne turcomanne dai capelli allungati per mezzo di cordoncini di peli di capra, dalla camicia aperta sotto il djuba, a righe azzurre, porporine e verdi, le gambe allacciate con bende colorate, che s’incrociavano fino al loro zoccolo di cuojo. Colà pure — come se tutte le popolazioni della frontiera russo-chinese si fossero levate alla voce dell’Emiro — si vedevano dei Mansciuri, rasi alla fronte ed alle tempia, coi capelli appiccicati, le