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l’entrata trionfale


A mano manca dell’altipiano era stato rizzato, sopra larghe terrazze, una specie di splendido scenario, raffigurante un palazzo di bizzarra architettura, senza dubbio un campione dei monumenti bukariani semi-moreschi e semi-tartari. Sopra quel palazzo, all’estremità dei minareti che lo facevano irto da tutte le parti, fra gli altri rami degli alberi che facevano ombra all’altipiano, turbinavano centinaja di cicogne addomesticate, venute da Bukara coll’armata tartara.

Queste terrazze erano state riservate alla corte dell’Emiro, ai kani suoi alleati, ai gran dignitarî dei kanati e degli harem di ciascuno di cotesti sovrani del Turkestan.

Di queste sultane, che per lo più non sono che schiave comperate sui mercati di Transcaucasia e della Persia, le une avevano la faccia scoperta; portavano le altre un velo che le nascondeva allo sguardo. Tutte erano vestite con un lusso estremo. Eleganti pelliccie, dalle maniche rialzate indietro, lasciavano vedere le braccia nude cariche di braccialetti riuniti con catene di pietre preziose, e le loro manine, le cui dita avevano le unghie tinte col sugo di henneh. Ad ogni minimo movimento di queste pelliccie, le une di stoffa di seta, paragonabili, per la finezza, a tele di ragno, le altre fatte di una morbida aladja, che è un tessuto di cotone a righe strette, si produceva quel fruscío gradito all’orecchio degli Orientali. Sotto quella prima veste cangiante, gonne di broccato, che coprivano calzoni di seta stretti un po’ più su degli stivaletti di taglio grazioso e ricamati in perle. Quelle donne che il velo non nascondeva, erano ammirabili per le lunghe ciocche sfuggenti dai turbanti di varî colori, per gli occhi stupendi,