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un campo tartaro

a due corde parallelamente tese l’una all’altra, colla coda annodata e la groppa coperta da una rete di seta nera, si vedevano i Turcomanni, dalle gambe sottili, lunghi di corpo, dal pelo lucente, dall’incollatura nobile; gli usbechi, che sono animali robusti; i kokandiani, che portano col loro cavaliere due tende e tutta una batteria di cucina; i kirghizi dal mantello chiaro, venuti dalle sponde del fiume Emba, dove vengono pigliati coll’«arcan,» specie di laccio dei Tartari, e molti altri prodotti di razze incrociate che sono di qualità inferiore.

Gli animali da soma si contavano a migliaja. Erano cammelli di piccola statura, ma ben fatti, dal pelo lungo, dalla criniera folta ricadente sul collo, animali docili e più facili ad aggiogare del dromedario; nars ad una gobba, dal pelame color rosso fuoco, dai peli inanellati; asini resistenti alla fatica e la cui carne, molto stimata, forma in parte il nutrimento dei Tartari.

Su tutto questo insieme d’uomini ed animali, su questa immensa agglomerazione di tende, i cedri ed i pini, disposti a larghi gruppi, gettavano un’ombra fresca, rotta qua e là da qualche raggio solare. Nulla di più pittoresco di questo quadro, nel quale il colorista più ardente avrebbe consumati tutti i colori della sua tavolozza.

Quando i prigionieri fatti a Kolyvan giunsero dinanzi alle tende di Féofar-Kan e dei gran dignitari del kanato, tutti i tamburi batterono al campo, suonarono le trombe. A questi rumori già formidabili s’aggiunsero schioppettate stridenti, e lo sparo più grave dei cannoni da quattro e da sei, che formavano l’artiglieria dell’Emiro.

L’accampamento di Féofar era puramente mi-