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michele strogoff

gialli dai tacchi appuntati all’estremità e rialzati come gli stivali del medio-evo. La pelliccia, fatta d’indiana imbottita di cotone, si stringeva loro al corpo con una cinta di cuojo orlata di rosso. Essi erano armati difensivamente d’una targa ed offensivamente d’una sciabola curva, d’un coltellaccio lungo e d’un fucile a pietra focaja sospeso all’arcione della sella. Sulle spalle portavano un mantello di feltro dai vivaci colori.

I cavalli, che pascolavano liberamente sul lembo del bosco, erano di una razza usbeca come i loro cavalieri. Ciò si vedeva benissimo alla luce delle torcie, che gettavano un vivo bagliore sotto le fronde dei larici. Codesti animali, un po’ più piccini dei cavalli turcomanni, sono dotati d’una forza singolare, e non conoscono altra andatura che il galoppo.

Il drappello era guidato da un «pendja-baschi,» vale a dire un comandante di cinquanta uomini, avendo sotto i suoi ordini un «deh-baschi,» semplice comandante di dieci uomini. Questi due uffiziali portavano un casco ed una mezza cotta di maglia: piccole trombe appese all’arcione della loro sella formavano il segno distintivo del loro grado.

Il «pendja-baschi» aveva dovuto far riposare i suoi uomini stanchi da una lunga tappa. Pur cianciando e fumando il «beng,» foglia di canapa che forma la base dell’«haschisch,» di cui gli Asiatici fanno tanto uso, il secondo uffiziale e lui andavano e venivano nel bosco, in guisa che Michele Strogoff potè, non visto, udire e comprendere la loro conversazione, perchè essi si esprimevano in lingua tartara.

Fin dalle prime parole di questa conversazione