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— 83 — gli acquitrini della baraba |
Dunque, nella sera e nella notte dal 2 al 3 agosto, Michele Strogoff se ne stette confinato nel suo albergo, all’entrata della città, albergo poco frequentato, al riparo dagli importuni e dai curiosi.
Affranto dalla fatica si coricò dopo d’aver badato che al suo cavallo non mancasse nulla; ma non potè dormire che ad intervalli. Troppe ricordanze, troppe inquietudini lo assediavano ad un tempo. L’immagine della sua vecchia madre, quella della giovane ed intrepida sua compagna, lasciate dietro di sè senza protezione, s’alternavano nel suo spirito, si confondevano insieme nel medesimo pensiero.
Poi ripensava alla missione che aveva giurato di compiere; ciò che vedeva dopo la sua partenza da Mosca gliene mostrava sempre più l’importanza. Il movimento era gravissimo, e la complicità di Ogareff lo rendeva più formidabile. E quando i suoi sguardi cadevano sulla lettera col sigillo imperiale, questa lettera che senza dubbio conteneva il rimedio a tanti mali, la salvezza di tutto quel paese tormentato dalla guerra, Michele Strogoff sentiva dentro di sè come un selvaggio desiderio di slanciarsi attraverso la steppa, di valicare a volo d’uccello la distanza che lo separava da Irkutsk, di essere aquila per innalzarsi sopra gli ostacoli, di essere uragano per attraversar l’aria colla rapidità di cento verste all’ora, di arrivare infine al cospetto del gran duca e di gridargli: «Altezza, da parte di Sua Maestà lo czar!»
Il domattina, alle 6, Michele Strogoff ripartì coll’intenzione di percorrere in quella giornata le ottanta verste (85 chilometri) che separano Kams dal casale di Ubinsk. Al di là d’un raggio di venti