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michele strogoff

cellane preziose e di vasellami d’oro. Sulla mensa centrale riserbata ai principi, alle principesse ed ai membri del corpo diplomatico, scintillava un trionfo di un gran prezzo, venuto dalle fabbriche di Londra; ed intorno a quel lavoro di oreficeria splendevano alla luce dei lampadarî i mille pezzi del più ammirabile servizio che fosse mai uscito dalle manifatture di Sevres.

Gl’invitati incominciarono a dirigersi verso le sale della cena.

In quella il generale, che era arrivato, si accostò all’ufficiale dei cacciatori della guardia.

— Ebbene? gli domandò costui coll’ansia della prima volta:

— I telegrammi non passano più Tomsk, sire.

— Un corriere all’istante!

L’ufficiale, lasciando le sale, entrò in una stanza attigua. Era un gabinetto da lavoro, arredato in modo semplicissimo e posto nell’angolo del Palazzo Nuovo. Alcuni quadri, fra cui molte tele di Orazio Vernet, erano appesi alle pareti.

L’ufficiale aprì le finestre, come se mancasse l’ossigeno ai suoi polmoni, e venne a respirare sopra un largo balcone l’aria pura d’una bella notte di luglio.

Sotto gli occhi suoi, illuminata dalla luna, si incurvava una linea fortificata, in cui sorgevano due cattedrali, tre palazzi ed un arsenale. Intorno a quella cinta si disegnavano tre città distinte, Kitaï-Gorod, Beloï-Gorod, Zemlianoi-Gorod, immensi quartieri europei, tartari o cinesi, su cui si ergevano le torri, i campanili, i minareti, le cupole, le trecento chiese sormontate da croci d’argento. Un piccolo fiume, dal corso sinuoso, rifletteva qua e là i raggi della luna. Tutto quel-