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atto terzo | 221 |
Ismene. Funesto ad Alessandro
quell’impeto esser può. Che! per l’ingrato
giá palpiti, o cor mio?
Ah, per quanti a tremar nata son io!
Che pretendi, Amor tiranno?
a piú barbari martíri
tutti or deggio i miei sospiri;
non ne resta un sol per te.
Non parlar d’un incostante:
or son figlia e non amante;
e non merita il mio affanno
chi pietá non ha di me. (parte)
SCENA III
Gabinetto con porte che si chiudono, e spazioso sedile a sinistra.
Alessandro e Clearco.
Antigono ricusa? Ah! mai non speri
piú libertá.
Clearco. Senza quest’aureo cerchio,
ch’io rendo a te, non s’apriran le porte
del carcer suo. (porgendogli l’anello reale)
Alessandro. Da queste mura il campo
o Agenore allontani, o in faccia a lui
Antigono s’uccida.
Clearco. Io la minaccia
cauto in uso porrò; ma d’eseguirla
mi guardi il ciel: tu perderesti il pegno
della tua sicurezza. Assai piú giova
che i fervidi consigli,
una lenta prudenza ai gran perigli.