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138 | xviii - attilio regolo |
Regolo. Publio, che fai?
Publio. Compisco il mio dover: sorger degg’io
dove il padre non siede.
Regolo. Ah, tanto in Roma
son cambiati i costumi! Il rammentarsi
fra le pubbliche cure
d’un privato dover, pria che tragitto
in Africa io facessi, era delitto.
Publio. Ma...
Regolo. Siedi, Publio, e ad occupar quel loco
piú degnamente attendi.
Publio. Il mio rispetto
innanzi al padre è naturale istinto.
Regolo. Il tuo padre morí, quando fu vinto. (Publio siede)
Manlio. Parla, Amilcare, ormai.
Amilcare. Cartago elesse
Regolo a farvi noto il suo desio.
Ciò ch’ei dirá, dice Cartago ed io.
Manlio. Dunque Regolo parli.
Amilcare. (piano a Regolo) Or ti rammenta
che, se nulla otterrai,
giurasti...
Regolo. Io compirò quanto giurai. (pensa)
Manlio. (Di lui si tratta: oh, come
parlar saprá!)
Publio. (Numi di Roma, ah, voi
inspirate eloquenza a’ labbri suoi!)
Regolo. La nemica Cartago,
a patto che sia suo quant’or possiede,
pace, o padri coscritti, a voi richiede.
Se pace non si vuol, brama che almeno
de’ vostri e suoi prigioni
termini un cambio il doloroso esiglio.
Ricusar l’una e l’altro è il mio consiglio.
Amilcare. (Come!)