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atto secondo | 297 |
Ciro. (Pur mi desta in petto
sensi di tenerezza e di rispetto.) (da sé)
Astiage. (Parlar seco è imprudenza:
partasi.) (s’incammina e poi si ferma)
Arpago. (Lode al cielo!)
Astiage. (ad Arpago a parte) Arpago, e pure
in quel sembiante un non so che ritrovo,
che non distinguo e non mi giunge nuovo.
Arpago. (Aimè!)
Ciro. Pria che mi lasci, (appressandosi al re)
eccelso re...
Arpago. Taci, pastor! commessa
è a me la sorte tua: parlando, aggravi
il suo dolor.
Ciro. Piú non favello. (ritirandosi)
Arpago. E ancora,
signor, non vai? Qual maraviglia è questa?
Perché cambi color? Che mai t’arresta?
Astiage. Non so: con dolce moto
il cor mi trema in petto;
sento un affetto ignoto,
che intenerir mi fa.
Come si chiama, oh Dio!
questo soave affetto?
(Ah! se non fosse mio,
lo crederei pietá.) (parte)
SCENA VI
Ciro, Arpago ed Arpalice
lasciami solo.
Arpalice. Ah! genitor, tu m’ami,
sai che Alceo mi difese, e reo lo chiami?