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341 | atto secondo |
lo sposo, e sei perduto.
Learco. Ah, taci! Io parto.
Issipile. No. La man disarmata
m’abbandoni l’acciaro.
Learco. Eccolo, ingrata!
(Learco pensa un momento; e poi lascia lo stile in mano di Issipile)
Prence, tradito sei! (scuote Giasone e fugge)
Issipile. Ferma! (Giasone si sveglia; s’alza con impeto; e, nell’atto di voler snudar la spada, s’avvede d’Issipile, che tiene impugnato lo stile, e resta sorpreso)
SCENA XII
Giasone ed Issipile.
Issipii. Sposo!
Giasone. Ah! barbara donna,
io che ti feci mai? Di qual delitto
mi vorresti punir? L’averti amata
merita un gran castigo,
ma non da te. D’abitatori il mondo,
empia! spogliar vorresti,
perché al tuo fallo un testimon non resti.
Issipile. Può radunar la sorte
piú sventure per me! Signor, t’inganni:
io non venni a svenarti.
Giasone. E quell’acciaro,
e quel volto smarrito, e quella voce,
che tua non fu, che mi destò dal sonno,
non ti convince assai?
Issipile. Altri tentò svenarti: io ti salvai.
Giasone. Sí, veramente ho grandi
prove di tua pietá. Chi uccise un padre,
custodirá lo sposo.